Il libro è apparso a tutti come un testo originale e profondamente evocativo, capace di intrecciare storia, politica e memoria attraverso un punto di vista inedito: quello degli alberi. Ulivi, gelsi, pini e agrumi emergono come testimoni silenziosi della storia della Palestina e di Gerusalemme, osservatori longevi di conquiste, espropri, resistenze e cancellazioni.
Nel dialogo collettivo è emerso con forza il ribaltamento dello sguardo tra regno umano e non umano: la narrazione mette in crisi le gerarchie tradizionali e invita a considerare il paesaggio come un archivio vivente. La scrittura, colta ma accessibile, unisce rigore storico e sensibilità letteraria, accompagnando il lettore a rallentare e a leggere il territorio come spazio politico. Particolarmente significativa, per il gruppo, è stata la descrizione dei giardini botanici come una sorta di “zoo vegetale”, luoghi di catalogazione e controllo che rivelano una visione profondamente politicizzata della natura.
Nel confronto è emersa con chiarezza anche la dimensione coloniale del racconto. Il libro mostra come il colonialismo non agisca solo attraverso confini, eserciti o leggi, ma anche tramite pratiche apparentemente neutre come la gestione del paesaggio, la classificazione delle specie, la riforestazione o lo sradicamento selettivo degli alberi. Piantare, rinominare, sostituire una specie con un’altra diventa un atto di potere, un modo per imporre una narrazione e cancellarne altre. Il gruppo ha riconosciuto in questa prospettiva uno degli elementi più forti del testo, perché rende visibile un colonialismo che passa anche attraverso la natura.
La discussione ha insistito sul fatto che gli alberi non funzionano come semplici metafore, ma come elementi concreti di una geografia politica: sradicarli significa cancellare una memoria, piantarli equivale ad affermare un possesso. Da qui è emersa con chiarezza l’idea del paesaggio come campo di battaglia, in cui anche la natura viene coinvolta nei processi di dominio e resistenza.
Molto toccante per tutti i partecipanti è stata la vicenda, poco conosciuta, dei gelsi di Beirut, la cui distruzione contribuì a una delle più gravi carestie del secolo scorso. Un passaggio che ha suscitato una forte partecipazione emotiva e ha reso evidente l’intreccio profondo tra scelte politiche, ambiente e vita delle popolazioni.
Nel confronto finale, il gruppo ha riconosciuto la forza del libro nella sua capacità di emozionare senza perdere precisione storica. Ogni capitolo è apparso come un invito a riflettere sul legame tra ecologia, colonialismo e identità. Il gelso di Gerusalemme è stato unanimemente considerato una lettura necessaria, capace di lasciare un segno duraturo e di modificare il nostro modo di guardare un albero, una collina, una mappa.



